L’incontro nella Fragilità

Cos’è la fragilità?

Generalmente è uno stato che coinvolge l’intera persona in una dimensione di debolezza, d’ incapacità, di dolore (Devoto e Oli, 2012). Spesso in questi momenti non si vede la luce, non si vede nessun tipo di possibilità futura, è come se tutto fosse annebbiato. Sembra che sbagliare, inciampare, stare male, trovarsi smarriti in una colpa o in una malattia siano calamità da evitare, come se offendessero e marchiassero a vita il nostro “Io”, la nostra vita. Accettare la fragilità significa accettare l’incompiutezza, accettare d’iniziare, di nascere, di morire e quindi di recuperare la bellezza del vivere. È inevitabile venire a contatto con la fragilità poiché è la natura umana a metterci inesorabilmente di fronte a questa condizione. Essere fragili significa capire che si è figli, che si nasce da qualcuno, che siamo chiamati da un’affettività che ci ha “messi alla luce”. Di conseguenza prendere consapevolezza di essere figli significa divenire fratelli, vedere fratelli intorno a sé.

Ed ecco l’incontro (Lizzola, 2009). L’incontro è qualcosa di magico, paragonabile ad un abbraccio caloroso, è un non- luogo ma avviene spesso in un luogo, è un’accoglienza e un confronto tra due o più personalità distinte. La canzone  L’incontro di Andrea Bocelli riassume e delinea benissimo l’immagine che si costruisce in un incontro tra due o più persone:

 “Io l’abbracciai ed il mondo girò di più,
intorno a noi ogni cosa poi fiorì
”.

È così perché viviamo i nostri affetti, le nostre nuove esperienze e i nostri stessi nuovi incontri sempre sulla base di uno scambio, di un continuo appuntamento con gli altri e con noi stessi. L’incontro è una gioia se vissuto nel più naturale dei modi, nulla dovrebbe esserci d’ostacolo nel confronto con l’altro che può essere una persona o una metafora che indica un sentimento piuttosto che un’ alterazione. Esso è anche un’alleanza nella quale sembra prendere forma un tempo nuovo, diverso da quello passato, poiché nulla è uguale a prima e nulla sarà uguale a dopo.
Delinea però anche una ferita perché vi giochiamo un esercizio di forza mentre ritroviamo anche le nostre capacità e le possibilità di cura, di relazione. Viviamo in un mondo sociale, dov’è impossibile non avere nessun tipo d’incontro, sia con altri simili, che con oggetti o stati d’animo piuttosto che modificazioni corporee e mentali. Potremmo dire che tutto è incontro, tutto è scambio e nulla e c’è bisogno di relazione, di camminare insieme e cadere altrettanto insieme. Vivere confronti, instaurare relazioni significa anche educare e curare, aiutarsi e sostenersi ricordandosi che la solitudine non sempre (e soprattutto nella fragilità) è una buona compagna di viaggio (Lizzola, 2009).

Il senso della narrazione è una continua costruzione, è uno sguardo e una possibilità di fraternità. In particolare l’incontro nella fragilità è come tenersi veramente per mano nella ricerca di una cura, di una possibilità ancora di vivere. È un provare a dare di nuovo, a “sentirsi” di nuovo parte di un tutto, esterno ed interno. La fallibilità non ci fa meno prossimi e attenti all’altro, ma ci rende molto più capaci provando ad essere affidabili e affidati all’altro. La fragilità, la precarietà della vita, la delicatezza dei legami è il tratto dell’umano nel suo apparire e nel suo finire. Vita nascente e vita in fine ci riportano alla fragilità originaria, antropologica. Una fragilità che è ancora rivelata, mentre cerchiamo di nasconderla, nelle nuove domande, che sembra generare disorientamento ma che nel dolore fa riscoprire l’umano all’umano. È una fragilità comune, che non emargina e non esclude, è un tratto distintivo (Guerra, 1997).

Con ciò che si fa e si è, si va “verso” gli altri in una realtà sempre più allargata, sempre più consapevole e arricchita. La sensibilità e il rispetto per gli altri e per sé, la giusta distanza e la leggerezza nelle relazioni, l’assenza di gerarchie organizzative sono elementi da valorizzare e promuovere negli incontri di cura e nelle terapie in generale, oltre che a qualsiasi rapporto interpersonale. Oggi, si è sempre più portati a vivere nella freddezza delle organizzazioni e nella solitudine delle proprie piccole dimore escluse volutamente da un mondo che sempre più cerca di entrare e impossessarsi di ogni cosa, anche di quella più preziosa. L’esperienza nella sua interezza, soprattutto quella della sofferenza, non può essere scomposta né solo guarita ma dev’essere inserita nella sua giusta dimensione, cioè quella della sua peculiare ermeneutica.

Lasciare essere significa rispettare il mistero nel suo esporsi e ritirarsi come se tutto fosse così prezioso da poterlo solo sfiorare, come se tutto fosse una carezza, un apprezzamento, una contemplazione. Soffermarsi, restare presso poiché la verità non è soltanto fare luce e voler conoscere sino in fondo,  ma è toccare qualcosa che resta comunque intangibile. Proprio come l’amore. Un altro tema, per forza implicito nel discorso che stiamo facendo, è la speranza che non coincide per forza con la guarigione, ma che va di pari passo in ogni cura di ogni malattia che sia dell’animo o fisica. È giusto distinguere solo per alcune peculiarità necessarie le diverse malattie del corpo e della psiche, per il resto è opportuno considerarle sempre e comunque parti integranti del nostro essere senza nessuna particolare diversità. Entrambi questi tipi di dolori hanno la stessa portata e minacciano sempre e comunque il nostro essere, poiché ci rendono vulnerabili (Guerra, 1996).

Come suggerisce Zygmunt Bauman nel suo testo Il teatro dell’immortalità la morte è l’altro assoluto dell’essere, un altro inimmaginabile che aleggia al di là delle capacità di comunicazione: ogni volta che l’essere parla di quell’altro, finisce per parlare, attraverso una metafora negativa, di sé stesso”. Infatti, come abbiamo già argomentato nei capitoli precedenti, la morte sembra essere una realtà altra rispetto al nostro essere mentre invece ne è conglobata, fa parte della vita stessa e non è da considerare solo come una sua antitesi (Bauman, 1995).

“Senza la capacità di cambiare comportamento, di investire nella possibilità, sarà impossibile persino concepire un modo diverso di conoscere; essere capaci di farlo, d’altro canto, significa già inaugurare il cambiamento.” (Chorover e Melucci, 2000).

Il segreto è oltrepassare l’ancoraggio al nostro concetto di limite.
È vero che siamo esseri mortali e necessariamente limitati nel corpo, ma è altrettanto vero che siamo assolutamente in grado di andare al di là di ogni barriera intellettuale e culturale, al di là di ogni confine limitante e ghettizzante. Il nostro pensiero, la nostra mente, la nostra psiche sono riusciti ad arrivare sino all’inimmaginabile, a territori sia fisici che astratti inesplorati ed impensabili. Abbiamo, per così dire, superato noi stessi e per questi motivi non dobbiamo essere ancorati all’idea della fine che ci può fermare ancor prima di entrare in azione. Non lasciarci influenzare dall’idea ormai diffusa del nulla, dell’incapacità a reagire a qualsiasi ostacolo, a rinunciare ancor prima di provare.
L’incontro fraterno e solidale dovrebbe dare proprio questa forza, questa possibilità nella debolezza. Mai come l’essere fragili può portare all’esasperazione della negatività, alla resa prima ancora di ogni combattimento, alla disperazione incontrollata (Lizzola, 2002).

L’epistemologia di fondo è perciò quella d’integrare, di unire le forze comuni per abbattere ogni ostacolo che si presenta sul nostro cammino della vita. Non è un discorso astratto o idilliaco come potrebbe sembrare, ma è una forza che deve guidarci per convincere il mondo al cambiamento, alla proposta di un’esistenza più consapevole e più “umana”.

Daniela Scuri

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